Che fare se il figlio, la figlia mangia troppo o s’abbuffa?
Prima di dar risposta proviamo a mettere sotto osservazione la domanda ed in particolare il termine “troppo”.Per esempio chiediamoci: “Troppo per chi?” “Qual è il criterio a partire dal quale stiamo affermando, oggi, che quella quantità è “troppa”?”
Per un’assidua frequentatrice di palestre, o per una sportiva, qualche biscotto fuori orario può essere ritenuto uno sgarro inammissibile.
Per un ristoratore, un dolce a fine pasto è proprio quel che ci vuole per completare con piacere il pasto stesso. Anche nelle indicazioni dietetiche non troviamo verità assolute, a partire dalla stessa età, dallo stesso peso, dalla stesso livello di intensità di attività fisica, dallo stesso indice di massa corporea, possiamo trovare suggerimenti diversi relativi alla “giusta misura”.
Questo per dire che il giudizio inerente a quel “troppo” è sempre riferito ad una premessa iniziale.
I giudizi di valore espressi in merito alle condotte alimentari sono in effetti legati alle convinzioni personali, nonché alle culture locali, familiari e storiche, piuttosto che al mangiare in sé.
Per esempio, in tempi non sospetti, quando la retorica prevalente era quella della “sana e robusta costituzione”, o addirittura “dell’uomo di panza” colui che del cibo ne apprezzava persino la quantità veniva definito “una buona forchetta”. Oggi, che nei discorsi comuni ricorrono perlopiù parole come “forma fisica” e “salute” colui che non presta particolare riguardo alla quantità, in certi gruppi, viene definito come “uno che si abbuffa” o “uno che non si sa controllare”, indipendentemente dal suo peso corporeo e dal suo stato di salute.
Sapere questo – e quelle prime domande spingono a saperlo – consente di relativizzare il problema: un conto è infatti dire “mangia troppo”, altro è dire “non si usa mangiare così tanto oggi”.
Detto questo possiamo ritenere che il permanere delle sregolatezze alimentari dei ragazzi non sia semplicemente un problema di “fame” bensì un problema di tipo relazionale.
Se mangiare “troppo”, rispetto a quella misura accettata dal senso comune, è oggi un modo per apparire agli altri (adulti, genitori) irritante, incurante e trasgressivo, probabilmente è per difendere la propria autonomia che il ragazzo, la ragazza lo fa. In altri termini, il “non sentirsi obbedienti”. diventa un modo per rappresentare la propria identità, la propria diversità. Sentimento quello della disobbedienza che sta a base di quell’età culturale chiamata adolescenza.
A questo punto la soluzione si presenta da sé: suggerisco ai genitori di mostrare al figlio, la figlia, che il genitore “sta bene” anche se l’adolescente s’abbuffa.
E l’abbuffarsi, manovra tesa a non compiacere il genitore, diventa un’arma spuntata. Se il gioco relazionale permane, propongo di rivolgersi a un professionista.
—
Ringrazio per questo interessante approfondimento e stimolo alla riflessione:
dott.ssa Mariza Sellini
Psicologa e psicoterapeuta
telefono 338 458 16 05
mail: marziasellini@gmail.com
—
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Prima di dar risposta proviamo a mettere sotto osservazione la domanda ed in particolare il termine “troppo”.Per esempio chiediamoci: “Troppo per chi?” “Qual è il criterio a partire dal quale stiamo affermando, oggi, che quella quantità è “troppa”?”
Per un’assidua frequentatrice di palestre, o per una sportiva, qualche biscotto fuori orario può essere ritenuto uno sgarro inammissibile.
Per un ristoratore, un dolce a fine pasto è proprio quel che ci vuole per completare con piacere il pasto stesso. Anche nelle indicazioni dietetiche non troviamo verità assolute, a partire dalla stessa età, dallo stesso peso, dalla stesso livello di intensità di attività fisica, dallo stesso indice di massa corporea, possiamo trovare suggerimenti diversi relativi alla “giusta misura”.
Questo per dire che il giudizio inerente a quel “troppo” è sempre riferito ad una premessa iniziale.
I giudizi di valore espressi in merito alle condotte alimentari sono in effetti legati alle convinzioni personali, nonché alle culture locali, familiari e storiche, piuttosto che al mangiare in sé.
Per esempio, in tempi non sospetti, quando la retorica prevalente era quella della “sana e robusta costituzione”, o addirittura “dell’uomo di panza” colui che del cibo ne apprezzava persino la quantità veniva definito “una buona forchetta”. Oggi, che nei discorsi comuni ricorrono perlopiù parole come “forma fisica” e “salute” colui che non presta particolare riguardo alla quantità, in certi gruppi, viene definito come “uno che si abbuffa” o “uno che non si sa controllare”, indipendentemente dal suo peso corporeo e dal suo stato di salute.
Sapere questo – e quelle prime domande spingono a saperlo – consente di relativizzare il problema: un conto è infatti dire “mangia troppo”, altro è dire “non si usa mangiare così tanto oggi”.
Detto questo possiamo ritenere che il permanere delle sregolatezze alimentari dei ragazzi non sia semplicemente un problema di “fame” bensì un problema di tipo relazionale.
Se mangiare “troppo”, rispetto a quella misura accettata dal senso comune, è oggi un modo per apparire agli altri (adulti, genitori) irritante, incurante e trasgressivo, probabilmente è per difendere la propria autonomia che il ragazzo, la ragazza lo fa. In altri termini, il “non sentirsi obbedienti”. diventa un modo per rappresentare la propria identità, la propria diversità. Sentimento quello della disobbedienza che sta a base di quell’età culturale chiamata adolescenza.
A questo punto la soluzione si presenta da sé: suggerisco ai genitori di mostrare al figlio, la figlia, che il genitore “sta bene” anche se l’adolescente s’abbuffa.
E l’abbuffarsi, manovra tesa a non compiacere il genitore, diventa un’arma spuntata. Se il gioco relazionale permane, propongo di rivolgersi a un professionista.
—
Ringrazio per questo interessante approfondimento e stimolo alla riflessione:
dott.ssa Mariza Sellini
Psicologa e psicoterapeuta
telefono 338 458 16 05
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