Quando la voglia di studiare va in vacanza
Finalmente la Scuola è finita! Cancelli chiusi, ma la stessa cosa non la si può dire, in molti casi, per i compiti … quelli sono come alcuni cantieri, ancora aperti …
E questa faccenda dei compiti anima i dibattiti, non solo tra adulti e ragazzi, ma anche tra genitori ed insegnanti. Cerchiamo quindi di illustrare alcuni nodi della questione.
Una contraddizione in termini.
Intanto l’affermazione compiti delle vacanze, stride, è una contraddizione in termini.
La parola “compito”, infatti, ci riporta alle idee del “fare”, del “dovere”, del “lavoro”, mentre la derivazione etimologica della parola “vacanza”, all’opposto, rimanda alle figure del “vuoto”, del “vacuo”, dell’“assenza” e del “non fare”. Tutto ciò conduce a una difficile conclusione, è come se il ragazzino, la ragazzina si dicesse: “se faccio i compiti allora vuol dire che non sono in vacanza.”
Non sentirsi in vacanza, vuol dire, di fatto, non sentirsi come tutti gli altri, ovvero non sentirsi normale. Ed è così che il ragazzino, la ragazzina può sentirsi bloccato e diverso nel momento in cui deve fare compiti in vacanza, e può sembrare all’occhio dell’osservatore carente di voglia di fare.
La cultura del progresso e l’ideologia dell’apprendimento come processo lineare
Ma proviamo ad andare un po’ più a fondo. Questa idea di assegnare i compiti per l’estate agli studenti si lega alla cultura del progresso, per cui si crede che gli esseri umani apprendano secondo un processo lineare e progressivo, che le conoscenze si accumulino. Idea che in parte va difesa, ma che è limitante.
In linea con questa visione, se il bambino si esercita in vacanza, a fare quanto appreso in aula, durante l’anno scolastico, si ritiene consoliderà il suo sapere.
Ma il bambino sappiamo che non funziona come un robot, non accumula ed elabora informazioni punto e basta, ma compie operazioni molto più complesse.
Gli esseri umani non apprendono seguendo una scaletta precisa, ben definita, secondo un piano programmatico valido per tutti. Le conoscenze, le acquisizioni, il sapere possono avere andamenti del tutto casuali e personali.
L’essere umano apprende solo su comando?
Con questo non si sta mettendo in dubbio l’importanza del sapere, il bisogno, se non addirittura il diritto del bambino, di conoscere.
In ogni momento della nostra vita siamo implicati in processi conoscitivi e sono diverse le modalità che possiamo adottare per conoscere la realtà.
In tal senso potremmo persino dire che non andiamo mai in vacanza da noi stessi.
Anche quando apparentemente siamo fermi, ci sembra di non far nulla, in realtà stiamo sempre facendo qualcosa. Stiamo sempre lavorando in vista di un certo obiettivo, di uno scopo.
Il problema diventa quindi un altro, non “ se il soggetto umano ha bisogno di sapere “ ma “come riteniamo che questo sapere debba esser trasferito, passato”. In che modo vogliamo insegnare ai bambini ad apprendere? Domanda non da poco. Vedete, si crede, da un po’ di tempo a questa parte, all’incirca da due secoli e mezzo, da quando abbiamo inventato la Scuola Moderna, che gli esseri umani apprendano solo se comandati. Che i saperi possano essere passati a studenti, ai figli, solo su comando. Non è così. Abbiamo ricerche che mostrano il contrario: non occorre comandare saperi per imparare. Studi recenti dicono in effetti, che i bambini apprenderebbero di più se non ci fosse il comando, se non fosse passato loro l’obbligo a sapere.
Proviamo a capirli
L’assegnazione dei compiti, passata come ordine veicola l’implicito messaggio: “Apprendi quel che dico io, perché lo dico io, perché io l’ho deciso!”
Questo messaggio provoca la disobbedienza giovanile, soprattutto di questi tempi (per ragioni profonde legate a cambiamenti storici e culturali che non vado ad illustrare qui).
E’ intuibile, che questo tipo di proposta, così formulata, non li aiuti a sentirsi liberi di scoprire, di incuriosirsi, di fare domande, di appassionarsi, meravigliarsi delle cose del mondo.
Il mero senso del dovere non appaga come il piacere di capire, toglie bellezza alla scoperta condivisa, si pone come elemento fondante per esempio del dialogo educativo, affievolisce e sfianca gli animi. Rimane negli orecchi e nel cuore solo l’attestazione del potere, rimane impressa negli occhi la forza della gerarchia, a detrimento della valorizzazione delle differenze individuali e dell’unicità delle scoperte esistenziali.
Forse si crede che alcune modalità conoscitive possibili all’essere umano, l’intuizione, la fantasia, l’immaginario, la creatività, la libera espressione siano meno valide di quelle logico razionali? Forse che il passare un po’ del nostro umano tempo a coltivare il valore dell’amicizia, o a inseguire le proprie passioni amorose valga meno del far guadagno? Forse che il sognare ad occhi aperti sia meno reale dell’agire in vista di un voto, di un risultato?
Quindi, se la Scuola riuscisse a non comandare saperi, potremmo ottenere più risultati. Certo, questo vuol dire mettere in campo conoscenze e competenze utili a far si che l’altro chieda a me, un rapporto di apprendimento, di insegnamento, affinché per esempio mi dica:
“Prof che libri mi suggerisci per l’estate?”
“Papà che posso leggere per saperne di più, non ho capito bene?”
“Mamma mi spieghi questa cosa ..?” etc.
Che fare dunque?
Veniamo ora alla risoluzione del problema “compiti delle vacanze”. Come aiutare il figlio ad uscire da quel piccolo conflitto che lo blocca? Sappiamo che spiegare bene, fare la morale, fare lunghi discorsi sugli investimenti culturali (“Studia serve al tuo futuro”) o ribellarsi alle richieste degli insegnanti non serve a molto anzi cristallizza il problema del non aver voglia di studiare.
Che fare dunque?
Ricordo, non manca nulla negli esseri umani, stanno sempre facendo qualcosa. Non manca la volontà al ragazzo che non fa i compiti, sta solo facendo altro. Anzi, il dire comune:
“Insomma impegnati ci vuole solo un po’ di buona volontà! Mettici più impegno” di fatto, alimenta il problema, non lo risolve, perché passa al ragazzo l’idea che in lui manchi qualcosa, la volontà.
Il ragazzo se ne convince, perché gli altri importanti per lui glielo dicono, ed agisce inconsapevolmente, in maniera coerente, con quella credenza, ovvero agisce come uno che non ha volontà, ed è cosi che il problema si irrobustisce. Il problema “mancanza di voglia” in effetti, si sostanzia nel gioco relazionale, tra me ragazzo che ti dimostro di non fare e te adulto che insisti nel comandarmi di studiare o nel dire che in me manca qualcosa.
Posso aiutare il ragazzo ad uscirne trasformando il problema in una risorsa, chiedendomi per esempio: “Cosa c’è di bello in mio figlio che non sta facendo i compiti? Cos’altro sta facendo di bello?” Posso notare a questo punto che è un ragazzo creativo, fantasioso, geniale, sensibile, solidale con gli amici etc. E glielo comunico:
“Come sei abile quando giochi a pallone!” ..
“Che belle immagini sai creare … “
“Come ti apprezzo quando ti sento parlare dei tuoi amici, si vede che sei sensibile ..”
Il senso di questo passaggio è che il ragazzo sente di ricevere la mia attenzione di genitore non soltanto perché non fa i compiti, quindi sperimenta il fatto che per me può esistere, essere notato,anche senza mettere in atto il problema del non fare i compiti. Il messaggio è un messaggio, permettetemi d’amore, è l’accettazione totale dell’altro, del proprio figlio, significa:
“Voglio bene a te, non ai tuoi voti, non ai tuoi risultati!”
—
Ringrazio per questo interessante approfondimento e stimolo alla riflessione:
dott.ssa Mariza Sellini
Psicologa e psicoterapeuta
telefono 338 458 16 05
mail: marziasellini@gmail.com
—
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E questa faccenda dei compiti anima i dibattiti, non solo tra adulti e ragazzi, ma anche tra genitori ed insegnanti. Cerchiamo quindi di illustrare alcuni nodi della questione.
Una contraddizione in termini.
Intanto l’affermazione compiti delle vacanze, stride, è una contraddizione in termini.
La parola “compito”, infatti, ci riporta alle idee del “fare”, del “dovere”, del “lavoro”, mentre la derivazione etimologica della parola “vacanza”, all’opposto, rimanda alle figure del “vuoto”, del “vacuo”, dell’“assenza” e del “non fare”. Tutto ciò conduce a una difficile conclusione, è come se il ragazzino, la ragazzina si dicesse: “se faccio i compiti allora vuol dire che non sono in vacanza.”
Non sentirsi in vacanza, vuol dire, di fatto, non sentirsi come tutti gli altri, ovvero non sentirsi normale. Ed è così che il ragazzino, la ragazzina può sentirsi bloccato e diverso nel momento in cui deve fare compiti in vacanza, e può sembrare all’occhio dell’osservatore carente di voglia di fare.
La cultura del progresso e l’ideologia dell’apprendimento come processo lineare
Ma proviamo ad andare un po’ più a fondo. Questa idea di assegnare i compiti per l’estate agli studenti si lega alla cultura del progresso, per cui si crede che gli esseri umani apprendano secondo un processo lineare e progressivo, che le conoscenze si accumulino. Idea che in parte va difesa, ma che è limitante.
In linea con questa visione, se il bambino si esercita in vacanza, a fare quanto appreso in aula, durante l’anno scolastico, si ritiene consoliderà il suo sapere.
Ma il bambino sappiamo che non funziona come un robot, non accumula ed elabora informazioni punto e basta, ma compie operazioni molto più complesse.
Gli esseri umani non apprendono seguendo una scaletta precisa, ben definita, secondo un piano programmatico valido per tutti. Le conoscenze, le acquisizioni, il sapere possono avere andamenti del tutto casuali e personali.
L’essere umano apprende solo su comando?
Con questo non si sta mettendo in dubbio l’importanza del sapere, il bisogno, se non addirittura il diritto del bambino, di conoscere.
In ogni momento della nostra vita siamo implicati in processi conoscitivi e sono diverse le modalità che possiamo adottare per conoscere la realtà.
In tal senso potremmo persino dire che non andiamo mai in vacanza da noi stessi.
Anche quando apparentemente siamo fermi, ci sembra di non far nulla, in realtà stiamo sempre facendo qualcosa. Stiamo sempre lavorando in vista di un certo obiettivo, di uno scopo.
Il problema diventa quindi un altro, non “ se il soggetto umano ha bisogno di sapere “ ma “come riteniamo che questo sapere debba esser trasferito, passato”. In che modo vogliamo insegnare ai bambini ad apprendere? Domanda non da poco. Vedete, si crede, da un po’ di tempo a questa parte, all’incirca da due secoli e mezzo, da quando abbiamo inventato la Scuola Moderna, che gli esseri umani apprendano solo se comandati. Che i saperi possano essere passati a studenti, ai figli, solo su comando. Non è così. Abbiamo ricerche che mostrano il contrario: non occorre comandare saperi per imparare. Studi recenti dicono in effetti, che i bambini apprenderebbero di più se non ci fosse il comando, se non fosse passato loro l’obbligo a sapere.
Proviamo a capirli
L’assegnazione dei compiti, passata come ordine veicola l’implicito messaggio: “Apprendi quel che dico io, perché lo dico io, perché io l’ho deciso!”
Questo messaggio provoca la disobbedienza giovanile, soprattutto di questi tempi (per ragioni profonde legate a cambiamenti storici e culturali che non vado ad illustrare qui).
E’ intuibile, che questo tipo di proposta, così formulata, non li aiuti a sentirsi liberi di scoprire, di incuriosirsi, di fare domande, di appassionarsi, meravigliarsi delle cose del mondo.
Il mero senso del dovere non appaga come il piacere di capire, toglie bellezza alla scoperta condivisa, si pone come elemento fondante per esempio del dialogo educativo, affievolisce e sfianca gli animi. Rimane negli orecchi e nel cuore solo l’attestazione del potere, rimane impressa negli occhi la forza della gerarchia, a detrimento della valorizzazione delle differenze individuali e dell’unicità delle scoperte esistenziali.
Forse si crede che alcune modalità conoscitive possibili all’essere umano, l’intuizione, la fantasia, l’immaginario, la creatività, la libera espressione siano meno valide di quelle logico razionali? Forse che il passare un po’ del nostro umano tempo a coltivare il valore dell’amicizia, o a inseguire le proprie passioni amorose valga meno del far guadagno? Forse che il sognare ad occhi aperti sia meno reale dell’agire in vista di un voto, di un risultato?
Quindi, se la Scuola riuscisse a non comandare saperi, potremmo ottenere più risultati. Certo, questo vuol dire mettere in campo conoscenze e competenze utili a far si che l’altro chieda a me, un rapporto di apprendimento, di insegnamento, affinché per esempio mi dica:
“Prof che libri mi suggerisci per l’estate?”
“Papà che posso leggere per saperne di più, non ho capito bene?”
“Mamma mi spieghi questa cosa ..?” etc.
Che fare dunque?
Veniamo ora alla risoluzione del problema “compiti delle vacanze”. Come aiutare il figlio ad uscire da quel piccolo conflitto che lo blocca? Sappiamo che spiegare bene, fare la morale, fare lunghi discorsi sugli investimenti culturali (“Studia serve al tuo futuro”) o ribellarsi alle richieste degli insegnanti non serve a molto anzi cristallizza il problema del non aver voglia di studiare.
Che fare dunque?
Ricordo, non manca nulla negli esseri umani, stanno sempre facendo qualcosa. Non manca la volontà al ragazzo che non fa i compiti, sta solo facendo altro. Anzi, il dire comune:
“Insomma impegnati ci vuole solo un po’ di buona volontà! Mettici più impegno” di fatto, alimenta il problema, non lo risolve, perché passa al ragazzo l’idea che in lui manchi qualcosa, la volontà.
Il ragazzo se ne convince, perché gli altri importanti per lui glielo dicono, ed agisce inconsapevolmente, in maniera coerente, con quella credenza, ovvero agisce come uno che non ha volontà, ed è cosi che il problema si irrobustisce. Il problema “mancanza di voglia” in effetti, si sostanzia nel gioco relazionale, tra me ragazzo che ti dimostro di non fare e te adulto che insisti nel comandarmi di studiare o nel dire che in me manca qualcosa.
Posso aiutare il ragazzo ad uscirne trasformando il problema in una risorsa, chiedendomi per esempio: “Cosa c’è di bello in mio figlio che non sta facendo i compiti? Cos’altro sta facendo di bello?” Posso notare a questo punto che è un ragazzo creativo, fantasioso, geniale, sensibile, solidale con gli amici etc. E glielo comunico:
“Come sei abile quando giochi a pallone!” ..
“Che belle immagini sai creare … “
“Come ti apprezzo quando ti sento parlare dei tuoi amici, si vede che sei sensibile ..”
Il senso di questo passaggio è che il ragazzo sente di ricevere la mia attenzione di genitore non soltanto perché non fa i compiti, quindi sperimenta il fatto che per me può esistere, essere notato,anche senza mettere in atto il problema del non fare i compiti. Il messaggio è un messaggio, permettetemi d’amore, è l’accettazione totale dell’altro, del proprio figlio, significa:
“Voglio bene a te, non ai tuoi voti, non ai tuoi risultati!”
—
Ringrazio per questo interessante approfondimento e stimolo alla riflessione:
dott.ssa Mariza Sellini
Psicologa e psicoterapeuta
telefono 338 458 16 05
mail: marziasellini@gmail.com
—
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Che fare se mangia tropo o si abbuffa?
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